The contribution of the Dean, Javier Belda Iniesta, to the fine research work of Professor Manuel J. Arroba.
Professor Manuel J.
Arroba, one of the most eminent experts in procedural canon law, gives his
opinion regarding the choice of the “Apostolic Constitution” form for the
document entitled “Episcopalis Communio” by Pope Francis, that aims to reform
the synod of the bishops. This research is also based on the knowledge and
competences of Dr. Javier Belda Iniesta, Dean of the Faculty of human,
canonical and religious sciences, who, with the support of his students, has
contributed to the gathering of information that is essential for the
orientation of the research.
Per emanare la legge con la quale creava il sinodo dei
vescovi, Paolo VI scelse la forma di una lettera apostolica data motuproprio (Apostolica
sollicitudo); ora, per la sua riforma, Francesco ha provveduto tramite una
costituzione apostolica (Episcopalis communio). Dal punto di vista
canonico la circostanza merita riflessione, sia rispetto al contributo che da
essa può provenire allo studio sulla diversità di forme dei documenti pontifici
legislativi, sia soprattutto per favorire una più ricca e integrale ricezione
della normativa appena promulgata.

Si segnala anche come aspetto discriminante il
genere del documento in relazione ai munera pontifici. Per
l’esercizio del munus regendi, le costituzioni apostoliche
sarebbero la forma usata per emanare leggi e organizzare i territori
ecclesiastici, mentre si ricorre ai motupropri per questioni attinenti
all’organizzazione della Curia romana o agli affari temporali della Chiesa
(Eutimio Sastre Santos, Documentos pontificios, in Diccionario
general de derecho canónico, III, Pamplona, 2012, pagine 458-461). In
realtà, i citati motupropri sulla riforma del processo non riguardano
direttamente organismi della curia; ci sono inoltre casi relativamente recenti
di costituzioni apostoliche il cui oggetto essenziale appartiene al munus
docendi (come la Fidei depositum con la quale
Giovanni Paolo II promulgò il Catechismo della Chiesa cattolica) o al munus
sanctificandi (come la Sacram unctionem infirmorum di
Paolo VI sul rinnovamento della dottrina e prassi sul sacramento).
Un altro aspetto interessante, legato
all’etimologia della forma, è il tipo di iniziativa che provoca il
provvedimento. Si può pensare che i motupropri siano di iniziativa diretta del
Pontefice, spesso motivata dall’urgenza nel disciplinare una questione, mentre
le norme date tramite costituzione apostolica derivino da un’esigenza e
iniziativa ecclesiale maggiore (costituzione deriva da cum-statuere),
che richiede una solida collaborazione nella fase di preparazione. Riferendoci
ancora ai motupropri sui processi matrimoniali, il Papa ha avuto un ruolo
determinante nel portare avanti in tempi brevi la riforma, ma non è esatto
(viste le risposte ai questionari preparatori delle assemblee sinodali del 2014
e del 2015) attribuire solo a lui l’iniziativa, tralasciando il peso
dell’esigenza ecclesiale raccolta ed espressa dalla maggior parte dei vescovi.
Tale diversità di criteri identificativi spiega la più ovvia e superficiale tra
le considerazioni: che la differenza tra costituzione apostolica e motuproprio
possa non provenire da altro che dalla denominazione di fatto utilizzata,
intendendo quindi che la medesima sia frutto di una scelta soggettiva del
legislatore. Ciò spiegherebbe che, a differenza di quanto accaduto ora sulla
riforma del sinodo dei vescovi, spesso si ricorra alla stessa forma utilizzata
nel corpo normativo sul quale si interviene; si pensi al recente provvedimento
sugli studi ecclesiastici, dove si è fatto uso di una costituzione apostolica (Veritatis
gaudium) nonostante l’intervento modificativo sia di estensione piuttosto
ridotta rispetto alla normativa precedente (Sapientia christiana).
In realtà l’opzione compiuta da Papa Francesco
per rinnovare il sinodo dei vescovi suggerisce che non sia possibile ricondurre
la distinzione tra le forme di un documento pontificio all’uno o all’altro tra
gli aspetti indicati, isolatamente considerati, mentre appare necessario
riferirsi a tutti nella loro relazione. Tale orientamento conferma l’idea
secondo la quale, nella prospettiva della storia del diritto canonico, la forma
appare il prodotto di un insieme di elementi: della mentalità giuridica del
momento, della circostanza che provoca l’attività legislativa e della coscienza
con la quale il legislatore ritiene di coniugare la sua responsabilità
ministeriale specifica rispetto alle attese dell’intera Chiesa (Javier Belda
Iniesta, Las relaciones papado-imperio en el desarrollo de las fuentes
canónicas, in Apollinaris, 89 [2016], pagina 12). Così, una
costituzione apostolica sembra essere la forma da riservare per un corpo
normativo della maggiore importanza, rivolto a tutto il popolo di Dio e non
solo a coloro che hanno una responsabilità ministeriale o un ufficio, rispondente
a una esigenza che possa considerarsi proveniente dal basso, con contenuti
incidenti, almeno potenzialmente, in tutto l’ordinamento e non solo in un suo
settore specifico, nonostante vertano solo su una istituzione concreta. Al
contrario, i motupropri appaiono la forma più adeguata quando si tratta di un
corpo normativo dall’oggetto più ristretto, spesso ritenuto urgente, con
modifiche di una normativa precedente che, pur importanti, non alterano gli
elementi sostanziali dell’istituzione di cui si tratta.
Quanto detto aiuta a comprendere perché
Francesco non abbia mantenuto la forma della precedente normativa. Paolo VI si
servì di un motuproprio perché, pur riallacciandosi alle attese conciliari
sulla sollecitudine dell’episcopato per la Chiesa universale, il suo ruolo e la
sua persuasione personale come Pontefice furono determinanti nella creazione e,
soprattutto, nella denominazione di questo consiglio permanente di sacri
pastori, nonché nei tempi per provvedere (senza aspettare cioè la finalizzazione
del documento conciliare sul ministero episcopale, il futuro decreto Christus
Dominus), auspicando il successivo perfezionamento della normativa. Se
Francesco ha preferito servirsi di una costituzione apostolica, ritenendo forse
di interpretare un’esigenza ecclesiale più ampia rispetto alla reale efficacia
e funzionalità del sinodo dei vescovi, è probabilmente perché l’obiettivo del
rinnovamento normativo non si esaurisce nell’organismo sinodale ma, attraverso
di esso, include un progresso nella sinodalità come modo costitutivo di essere
Chiesa e, pertanto, di svolgere i ministeri ecclesiali e altre responsabilità
personali.
La forma fontis scelta,
proprio perché è la più alta nel manifestare l’incidenza delle nuove norme nel
cammino dell’intera Chiesa, implica che la loro ricezione non va ricondotta
solo a migliorare la partecipazione in occasione dei vari tipi di assemblea
sinodale, ma anche a evitare il rischio di scollamento con il sentire del
popolo di Dio, di cui sono manifestazione elementi come la mancata istituzione
degli organismi diocesani di partecipazione obbligatori per diritto;
l’omissione frequente della loro consultazione, anche se stabilita come modo
ordinario di agire per atti di governo affidati a uffici personali; e, più in
generale, quell’individualismo e quel clericalismo (a volte messo in atto dagli
stessi fedeli laici) che impediscono di sperimentare la gioia profonda che
proviene dal camminare insieme, nella varietà di carismi e ministeri, certi
della presenza del Signore, per portare al mondo la gioia del Vangelo in
costante rinnovamento.
di Manuel Jesús Arroba
Conde, Preside dell’Istituto «Utriusque Iuris»